“DEEP CHANGES”
ALESSIA OBINO CORdas
Alessia Obino: voce
Dimitri Sillato: violino, effetti
Giancarlo Bianchetti: chitarra, effetti
Enrico Terragnoli: banjo, podophone, effetti
Special Guests:
Reda Zine (voce/guembri)
Danilo Mineo (percussioni)
CALIGOLA RECORDS, 2016
Le canzoni costituiscono gran parte del repertorio musicale dell’umanità; nel ‘900 in particolare, la canzone è diventata la forma musicale principale con la nascita del disco. In questo “Deep Changes” la cantante/compositrice Alessia Obino si propone appunto di apportare dei “cambiamenti profondi” alla canzone tradizionale. Accompagnata da Dimitri Sillato (violino), Giancarlo Bianchetti (chitarra) ed Enrico Terragnoli (banjo, podophone) prende alcune canzoni risalenti ai primi decenni del XX secolo, stravolgendole in modo grottesco (non vi è nulla di spregiativo in questo termine). Il disco si apre con un arrangiamento molto interessante di “The Saga of Jenny” tratta da Lady in The Dark: dopo un’introduzione ambient, la canzone si rivela, con un andamento cadenzato, blueseggiante, tuttavia con qualcosa di inquieto; si ascoltino i soli distorti di Sillato e Bianchetti. Una song d’altri tempi cantata con l’angoscia di vivere il 2016. “Deep Henderson” è un’altra song che Obino e soci interpretano in uno stile molto peculiare: ritmica e armonia molto blues e country “alla vecchia”, ma con timbriche irrequiete il solo di Sillato è sempre un grido, trascurabile quello di Bianchetti. “Deep Night” si apre con una serie di effetti che lascia spazio a un’introduzione incantevole di violino effettato. La canzone ha un abito tradizionale spagnolo e una struttura ciclica. Per qualche motivo il solo di chitarra si sente molto al di sotto della ritmica, il solo di voce è piacevole ma dimenticabile. La prima ballad è “Sue’s Changes” di Mingus, introdotto da voce e chitarra. Un brano lirico e lento, dobbiamo aspettare diversi minuti prima che il discorso evolva in qualcosa di interessante: un intermezzo di improvvisazione collettiva. Peccato che proprio questo finisca per trascinarsi su se stesso nonostante il variare della ritmica. L’atmosfera si riprende con “Hong Kong Blues” con colori tetri e ritmica brillante. Decisamente pesante l’improvvisazione nonostante l’interessante approccio vocale della leader. “Lonely House” nell’introduzione riconferma nuovamente l’intenzione straniante e spettrale del quartetto. Il primo (e unico) inedito del disco è “Nightime” firmato dalla Obino. Poco aggiunge al discorso generale dell’album se non fosse per la seconda parte del brano: morbida ed evocativa (pur rimanendo molto cupa). Per salutarci il quartetto suona una versione di “Hard Time Killing Floor Blues” perfettamente coerente col resto del disco, arricchita brillantemente da Reda Zine e Danilo Mineo che rendono il tutto squisitamente africano. Nello specifico le note di copertina ci rivelano che la Obino si è ispirata alla musica e alla cultura Gnawa, anche se l’ascoltatore inesperto probabilmente lo percepirebbe solo in quest’ultimo brano. Nonostante la grande bravura degli esecutori/arrangiatori, il disco proprio non riesce a spiccare il volo; l’approccio avanguardistico e “grottesco” è molto coerente in tutti i brani: fin troppo! Un’opera coraggiosa ma destinata a un pubblico di appassionati di avant-garde vecchia scuola che molto probabilmente preferirebbe in ogni caso i dischi di Iva Bittova. Il talento non manca e sicuramente dei musicisti così navigati, nelle esibizioni dal vivo, renderanno questo repertorio sicuramente molto più appetibile.
Paolo Andreotti