Enrico Onofri è uno dei maggiori violinisti barocchi oggi in attività. Ma è anche un docente straordinario, molto richiesto all’estero. L’ultima edizione del Premio Abbiati gli ha conferito il premio nella categoria “Solista”. Da poco è uscito un suo nuovo CD che in qualche modo disorienta l’ascoltatore… Lo abbiamo incontrato.
di Gabriele Formenti
(Foto: credits Maria Svarbova)
Maestro Onofri, prima di tutto un commento sul premio Abbiati ricevuto nella categoria “Solista”. Se lo aspettava?
Mi ha sorpreso molto, sono davvero grato alla giuria di aver riconosciuto il mio lavoro attraverso un premio così importante.
Il suo nuovo CD è dedicato a Bartok. Un autore che a prima vista sembra essere molto distante dal suo abituale repertorio. Puo’ raccontarci come ha scelto questo programma?
In gioventù, collateralmente alla mia personale ricerca sulle prassi esecutive storiche, ho studiato il violino con Carlo De Martini, uno dei migliori allievi italiani del grande violinista ungherese Sándor Végh. Da quella scuola ho ricevuto un’educazione cameristica, e la musica “didattica” di Bartók – insieme al classicismo viennese e a Brahms – era pane quotidiano. Risale dunque a quel periodo il progetto di questa registrazione, che è rimasto però in sospeso per oltre vent’anni: una delle ragioni era la difficile scelta di un secondo violino. Tre anni fa, conversando casualmente con Lina Tur Bonet, ho scoperto la nostra comune passione per Bartók e ho capito che era lei la persona giusta per registrare i 44 Duetti secondo la mia visione.
Un aspetto che emerge subito dall’ascolto di questo disco è lo straordinario idioma violinistico mostrato da Bartok. Siamo di fronte a delle vere e proprie gemme…
Sì, e vanno persino oltre l’aspetto idiomatico strumentale: il rapporto stretto tra parola e musica, la complessità dei rapporti matematici su cui si fondano (che traspaiono formando geometrie limpidissime), l’aspetto speculativo che convive con un’espressione sincera e diretta derivata dai temi popolari su cui sono composti, sono tra gli aspetti più affascinanti. Inoltre le indicazioni di articolazione, di tempo e di dinamica sono maniacali, in modo da non lasciare spazio a manifestazioni soggettive: l’esecutore è così condotto a mettere il proprio sentire al servizio dell’espressione richiesta dal testo anziché usare la musica per dare dimostrazione di sé. Una vera delizia, dunque, per un interprete storicamente informato.
Può raccontare quali strumenti ha scelto per la registrazione e perché?
Un musicologo ungherese mi ha fornito una foto che mostra il violino di Imre Waldbauer (il primo interprete dei Duetti insieme a György Hannover) appena poche settimane dopo la premiere a Budapest nel 1932. La maggior parte dei violinisti a inizio Novecento montava il proprio strumento con la seconda e terza corda in budello puro, la quarta in budello rivestito e la prima di acciaio, che da pochissimo aveva cominciato a diffondersi: questa montatura si è utilizzata in Europa occidentale e Stati Uniti fino alla Seconda Guerra Mondiale, ma in Europa dell’Est l’uso della terza corda rivestita è cominciato molto presto. Dunque abbiamo montato i nostri violini seguendo fedelmente la montatura mostrata nella foto di Waldbauer: la prima corda in acciaio, la seconda in budello puro, terza e quarta in budello rivestito. La mescola di questi materiali influenza enormemente la sonorità dello strumento e l’uso dell’arco.
Prossimi progetti concertistici e discografici?
Principalmente impegni come direttore di orchestre sia storiche sia moderne (tra queste, è recente la nomina a direttore principale invitato da parte della Haydn Philharmonie, con cui affronterò Beethoven per l’anno a venire) e nei prossimi mesi opera (Handel e Haydn). Uscirà tra poco una nuova registrazione del mio Imaginarium Ensemble con le Stagioni di Vivaldi, inserite in un più ampio quadro sui suoni della Natura nel Barocco, ed è già in cantiere un CD dedicato al grande repertorio del Seicento italiano a violino solo.