G. MAHLER
DAS LIED VON DER ERDE
WIENER PHILHARMONIKER
JONATHAN NOTT, dir.
JONAS KAUFMANN, tenore
CD SONY CLASSICAL (2017)
Il Lied von der Erde di Jonathan Nott, alla direzione dei Wiener Philharmoniker per questa incisione del 2016 alla Musikverein della capitale austriaca, ha superato ogni nostalgia filo-romantica. L’èra di Bernstein, la sua maniera estatica di dirigere Gustav Mahler, è lontana. L’interpretazione di Nott è asciutta, avida di trattenuti e ritardandi: torrenziale, perfino, si potrebbe dire il suo canto di apertura, Das Trinklied vom Jammer der Erde. Più che rari, ed anzi quasi inesistenti, sono gli indugi fino al termine dell’Abschied: i tempi vengono rispettati fino a sfiorare, paradossalmente, il tradimento della partitura stessa (abbondano infatti nella scrittura di Mahler le indicazioni relative all’andatura, che spesso è volubile, e sempre dettagliatamente controllata). Ma mentre in questa esecuzione le sottigliezze del fraseggio sembrano perdere d’importanza, il gioco dei timbri ne assume una centrale: Nott li isola, consente loro di stagliarsi («hervortretend», come segnava spesso il compositore) nel tessuto orchestrale, con una chiarezza che ha tutto l’aspetto (sonoro) di essere voluta, e consapevolmente ricercata. Certo, a discapito di quella ricca alternanza fra titubanza ed urgenza che partiture come quelle del tardo Mahler, ancora oggi, dovrebbero poter esigere – onde non impoverirsi, nonostante il rinnovamento della sensibilità degli ascoltatori e delle scuole esecutive che può, e anzi deve, muovere oltre le interpretazioni del secolo scorso. Il problema è, con un’esecuzione che ricorda l’imperturbabile corso di un torrente, che quest’ultimo è costituito non di una sostanza viva, ma di una inorganica.
Ma il ruolo di protagonista di quest’incisione, nonostante la straordinarietà delle prime parti orchestrali dei Wiener che, quando si trovano in dialogo con lui quasi rischiano di sottrargli la scena, va riconosciuto inevitabilmente a Jonas Kaufmann. Il cantante esegue personalmente tutti e sei i Lieder, contravvenendo all’abituale divisione del ciclo per due esecutori (un tenore per Der Einsame im Herbst e Der Trunkene im Frühling, un mezzo-soprano, contralto o baritono per gli altri due Lieder), è il caratteristico colore, relativamente scuro, della sua voce a consentirglielo. Ma nonostante la mole della sfida che Kaufmann pone in questo modo a se stesso, le aspettative che si possono avere dalla sua esecuzione non sono affatto deluse. Impossibile del resto stabilire in maniera univoca se l’ultima pagina dello Abschied sia eseguita così come la udiamo in questa incisione per via della direzione di Nott, o per la sensibilità e le scelte dello stesso Kaufmann: il senso di inarrestabile, dolce e straziante dissolvenza che essa dovrebbe convogliare manca quasi del tutto, ed è forse questa l’unica piccola delusione cui si è condotti dalla loro esecuzione. Il tono “scuro” di Kaufmann è tale non soltanto per ragioni timbriche, ma perché riesce perfettamente a portare con sé la tenebra, che giustamente si deve poter udire in ogni parte del Lied, anche nelle sue più apparentemente, e momentaneamente, liete. Il tenore sembra tuttavia talvolta serbare fin troppe energie, man mano che procede la sequenza dei Lieder, e sono assai maggiori le soddisfazioni che ci procura in Von der Schönheit e nel Trunkene im Frühling, che non nel lungo congedo finale, o nel lacerato «lamento della terra» iniziale. La sua vasta esperienza nel repertorio operistico, superiore a quella che possiede come esecutore di Lieder, si ode in particolare nel secondo brano: “ariosa”, quasi, la maniera in cui arrotonda ed accompagna le note nell’Einsame im Herbst. Ma la qualità prima e più apprezzabile della sua interpretazione, condivisa per altro con Nott, è quella di dar luogo a una vera e propria, fluida, avvincente narrazione musicale (pensiamo soprattutto, come punto culminante di questo tratto dell’esecuzione, alla seconda parte di Von der Schönheit).
In conclusione, un’interpretazione che rispecchia il proprio tempo: l’epoca della perfezione tecnica, dell’impeccabilità, ma anche, purtroppo, dell’impazienza, dell’eccesso di regolarità, e della tendenza ad assegnare sempre minor valore alle fragilità che certa arte merita di poter ancor oggi manifestare, per fiorire tra le crepe della sua superficie e sbocciare nel suo pieno splendore.
Alice Verti