BLU-RAY SONY CLASSICAL (2016)
VERDI, OTELLO
THE METROPOLITAN OPERA
Otello: Aleksandrs Antonenko, Desdemona: Sonya Yoncheva
Iago: Željko Lučić, Montano: Jeff Mattsey
Cassio: Dimitri Pittas, Roderigo: Chad Shelton
Jennifer Jonhson Cano: Emilia, Un araldo: Tyler Duncan, Lodovico: Günther Groissböck
Direttore: Yannick Nézet-Séguin
Orchestra e Coro del Metropolitan
Regia: Bartlett Sher
Scenografia: Es Devlin
Costumi: Catherine Zuber
Luci: Donald Holder
Proiezioni: Luke Halls
Regia video: Gary HalvorsonProduzione in alta definizione del Metropolitan Opera, dalla trasmissione live del 17 ottobre 2015.
Con questa produzione di Otello, firmata da Bartlett Sher e distribuita da Sony per l’home-video nel 2016, il tempio statunitense dell’opera apriva la sua scorsa stagione. Subito qualche nota di regia: disinteressato, come del resto lo era lo stesso Shakespeare, a riproduzioni storiche esatte, Sher devia dalle indicazioni di Boito in maniera sostanziale, giocando con il paradigma della contemporaneità. Ovvero, se l’ambientazione rinascimentale prescritta dal libretto non coincideva certo con l’èra del drammaturgo elisabettiano, è vero che di guerre tra la Serenissima e l’Impero Ottomano ve n’erano ancora pochi decenni prima della scrittura di Othello, e che il loro peso politico era senz’altro ancora parte del quadro storico coevo a Shakespeare. Ebbene, se Boito ambientava in questo senso, politico e non letterale, l’azione (ribadiamo, non letterale, ma politica), nella contemporaneità dunque dell’autore della tragedia, Sher la ambienta nella contemporaneità di Verdi, trasferendola dall’epoca delle prime guerre turco-veneziane, fine Quattrocento, a quella, pressappoco, della composizione stessa, gli anni ’80 del XIX secolo. Ma questa “traslazione di contemporaneità” non si ferma qui, modificando l’appartenenza storica di trucco e costumi (lussuosi, questi ultimi, quanto semplici e di grande raffinatezza, perfettamente armonizzati a una luministica generosa in termini di colore, ma fin da principio, e con poche eccezioni, scura d’umore). Entra in scena anche la nostra contemporaneità, infatti, grazie a una scenografia di strutture architettoniche e pareti in plexiglas, unico vero elemento temporalmente estraneo alle sembianze pseudo-ottocentesche di ogni altro elemento scenico. Il pubblico d’opera, aduso ormai da diversi decenni al minimalismo e all’invasione della scena da parte dei materiali plastici, potrebbe dapprima scambiare questa scelta come un adattamento alle mode, senza troppa originalità od intelligenza. Ma di intelligenza, appunto, ce n’è eccome, ma tarda ad emergere: lo scopo della scelta verso un set interamente semi-trasparente diventa chiara nel III atto, quando Desdemona prima, e Iago poi, li trapassano con lo sguardo osservando struggersi Otello, senza che questi ne sia consapevole: egli non sembra capace di vedere oltre quelle pareti, che diventano così metafora delle sue stesse pareti interiori, permeabili da parte di coloro che più gli sono vicini, ma impermeabili, verso l’esterno, da parte di lui stesso, impossibilitato a vedere l’Altro con chiarezza, al di là delle sue angosciate proiezioni.
Impossibile non menzionare la decisione del regista di far andare in scena l’ottimo Aleksandrs Antonenko senza il tipico trucco da «moro». Pur non costituendo questo un primo caso assoluto, il cliché è talmente radicato nelle aspettative dello spettatore che la scelta non manca di sorprendere. Il regista afferma di averlo abbandonato proprio in qualità di cliché, adducendo così la più semplice delle ragioni. Ma si potrebbe tentare di guardare più a fondo nelle ragioni del suo intento. Non è infatti forse giunto il momento di riconoscere – e far cadere – questo ennesimo automatismo mentale, che appartiene a chi gli spettacoli teatrali li realizza, non meno che a chi vi assiste, come una forzatura centrata sulla «white supremacy», spesso oggi tristemente citata? Si trucca forse da «bianca» una Jessye Norman nei ruoli della Contessa di Almaviva o della faustiana Marguerite? No, eppure si truccano da più di quattro secoli attori e cantanti di carnagione chiara per consentire loro di impersonare Otello. La “filologia” sembra ancora valere soltanto per sottolineare le “estraneità” al contesto di partenza europeo, che all’epoca di Shakespeare, e senz’altro ancora a quella di Verdi e Boito, si poteva ancora dare il centro culturale del globo intero, ma che oggi certo quella centralità l’ha perduta. Considerando questo, possiamo dunque ancora pensare legittime simili sottolineature? Il volto non truccato di Antonenko è in questo senso un gesto di emancipazione ideologica, un sano e felice segno dei tempi.
In apertura al I, al III e durante buona parte del IV atto, le possenti onde dell’alto Mediterraneo invadono la scena grazie a proiezioni e fondali: fin da principio Otello e della sua piccola coorte sono sommersi dai flutti di un destino oscuro e travolgente, e la volta celeste che li sovrasta non è mai libera da nubi. La luministica riproduce dapprima i caratteri essenziali e diametralmente opposti dei personaggi: molto nero, bianco freddo, e le semi-trasparenze delle pareti in plexiglas. Poi fa il suo ingresso il colore: l’amore di Otello e Desdemona, durante il loro primo duetto, è illuminato in blu, come l’ira crescente di Otello sarà, seguendo ancora una tendenza alle opposizioni radicali, prima d’un arancione acceso poi, prevedibilmente, rossa. La presenza del colore va sempre più variegandosi, perdendo man mano il suo carattere contrastivo, fino a quando, tornato in scena il coro nella seconda metà del III atto, verso il grande concertato, l’oscurità abbraccia tutti i colori, annunciando l’imminente catastrofe e trasportando ciascun individuo dentro essa. Arrivati a questo punto, la drasticità con cui si potevano contrapporre i virtuosi dai maligni, i salvati dai condannati, le anime “buone” da quelle “cattive” si è ridotta, ché le tragiche conseguenze della debolezza umana li soggiogano tutti quanti.
Il plauso più alto lo merita senza dubbio Željko Lučić, uno Iago a dir poco impressionante, sottilissimo, invero perfetto. A tal punto il baritono serbo incarna in maniera ideale uno dei più sibillini anti-eroi shakespeariani (un esempio per tutti delle sue altissime doti recitative è la sua messinscena in Era la notte, Cassio dormia), senza tra l’altro avere il ruolo nel proprio repertorio da lungo tempo, che l’Otello di Antonenko ne risulta adombrato, pur senza perdere la sua indiscutibile brillantezza. E gli applausi finali del pubblico del Metropolitan lo confermano: Lučić e Yoncheva si guadagnano un calore che eccede percettibilmente, benché non troppo, quello con cui riaccoglie sul palco il cantante del ruolo eponimo.
La parte di Desdemona è affidata a Sonya Yoncheva, la cui carriera si è legata negli ultimi anni in maniera consistente al repertorio italiano ottocentesco. Ella è, proprio come il suo personaggio, assolutamente senza macchia. Il suo garbo e la sua docilità si accompagnano a passività che ben si confà alla collocazione storica del dramma, una passività che non significa tuttavia mancanza di carattere o debolezza, ma compassione, sconcerto, e un’assoluta incapacità di provare risentimento. Il suo sguardo, dopo i primi segni della collera dello sposo è sovente fisso a terra, e si carica di un rispetto pieno d’angoscia. La sua solidità morale e psicologica emerge senza subire nemmeno una scalfittura durante il teso scambio con Otello che ha per oggetto il famigerato fazzoletto (Dio ti giocondi). La dolcissima e sentita mestizia del suo Piangea cantando nell’erma landa prepara il culmine emotivo dell’Ave Maria, piena di grazia, che ella termina profondendo autentiche lacrime, e richiamandone inevitabilmente altre negli occhi dello spettatore.
Il ruolo eponimo invece, dal canto suo, soffre non certo di debolezze vocali, ma della relativa mancanza di mordente nell’interpretazione dal punto di vista scenico. A giudicare dalle sfumature che Antonenko si mostra in grado di attribuire, o di non attribuire, egli dà l’impressione di “sentire” tanto più autentica l’evoluzione iraconda e semi-psicotica del suo ruolo, che non la sua versione nobile ed equanime, rappresentando la quale egli appare vagamente assente, un poco monotono, e un po’ troppo, per così dire, semplice (benché esista a ciò un’eccezione, che è il suo duetto con Desdemona Già nella notte densa). Per assistere all’assottigliarsi della sua interpretazione, in senso sia vocale che scenico, occorre seguire il crescendo drammatico, arrivando al culmine mediano del Sì, pel ciel marmoreo giuro! in coda al II atto, la cui unica pecca – l’imprevisto e repentino calare dello sguardo al direttore un attimo prima di staccare l’ultima nota – rivela proprio il limite essenziale del tenore, ovvero l’incapacità di immergersi fino in fondo nel ruolo, senza mai allontanarsene (e il confronto con Lučić, che lì lo affianca, rende la cosa presto evidente).
Lo spirito con cui il canadese Yannick Nézet-Séguin (appena trentenne, per inciso, nel 2015) è pienamente conforme alle esigenze dell’opera verdiana, anche di una relativamente atipica come Otello: l’orchestra serve l’azione drammatica senza mai prendere il sopravvento, e quasi ci si dimentica della sua presenza (in senso positivo), stregati come si è al cospetto dei tanto impegnativi ruoli vocali.
L’edizione video, in altissima definizione, è disponibile sia in DVD che in Blu-Ray. Ed è forse il secondo, il formato ottimale per ammirare l’insuperabile qualità delle riprese realizzate al Metropolitan.
Alice Verti