ERWIN SCHULHOFF
CHAMBER MUSIC
Spectrum Concerts Berlin
Frank S. Dodge: direttore artistico
Boris Brovtsyn, Valeriy Sokolov: violino
Philip Dukes, Maxim Rysanov: viola
Jens Peter Maintz, Torleif Thedéen: violoncello
Eldar Nebolsin: pianoforte
NAXOS
Coproduzione degli Spectrum Concerts Friends e della Deutschlandradio Kultur
Questo disco Naxos è stato inciso in occasione degli «Spectrum Concerts» dedicati a Schulhoff nel gennaio 2016, nella Kammermusiksaal della Philharmonie berlinese. Il gesto prezioso di omaggiare con un piccolo gruppo di concerti uno degli autori più ignorati della Entartete Musik e, forse, di più straordinario genio, qual è appunto Erwin Schulhoff, viene compiuto sotto la direzione artistica di Frank Sumner Dodge, violoncellista fondatore degli stessi «Spectrum Concerts». Gesto tanto più prezioso se ne si considera anche il valore di contributo a una memoria storica che non deve restare soltanto musicale: il compositore praghese infatti, di famiglia ebreo-tedesca, conobbe la morte in un campo di concentramento in Baviera nel 1942, e il fatto è reso tanto più tragico a pensare che, oltre all’esistenza di un essere umano, furono l’eleganza della sua estetica compositiva, la sua cultura e la sua autocoscienza musicale, a venire brutalmente sacrificate da questo destino. Proprio in base alla sua cultura ed autocoscienza di musicista, Schulhoff merita di essere riconosciuto come una figura del tutto paragonabile a quelle, per esempio, dei coevi Berg, Ravel o Bartók, risparmiati con tanta più clemenza dall’oblio delle sale da concerto quanto non poté esserlo lui stesso – per ragioni che conviene valutare come puramente storiche, non estetiche o qualitative.
Questa incisione per Naxos presenta una selezione di lavori da camera appartenenti agli anni ’20 (il decennio di massima fioritura della produzione cameristica di Schulhoff, che negli anni successivi si sarebbe dedicato con più fervore ad altri generi, quali, soprattutto, la sinfonia e l’oratorio). Ci riuscirebbe davvero arduo nominare, fra quelle incise, un’opera in particolare che, più delle altre, abbia dato occasione agli esecutori di distinguersi: il livello complessivo è troppo alto per dare una classifica. Eldar Nebolsin, unico vero solista, esegue i Cinq Études de jazz (1926) al pianoforte senza mai peccare di manierismo, tentazione a cui i peculiari generi di ciascuno (Charleston, Blues, Chanson, Tango e Toccata) avrebbero potuto esporlo. Ma Nebolsin non cede: il jazz di Schulhoff è privo dell’ebbrezza e della libertà delle origini, è il jazz addomesticato, educato, fatto stile e regola dall’Europa fra le due guerre, un jazz epurato, “oggettivo” a cui il pianista uzbeko rende piena giustizia.
La Sonata n. 2 per violino e pianoforte (1927), invece, si presta particolarmente a mostrare i legami referenziali di Schulhoff con Bartók, oggetto di una sentita ammirazione. La prassi compositiva di quest’ultimo è discretamente imitata, o anzi, per meglio dire, ripresa, nel trattamento degli elementi ritmici come vero e proprio materiale tematico. La loro “elaborazione”, latamente intesa, dà ragione delle etichette che spesso si appongono al nome di Schulhoff (ovvero quella “cubista” e/o “dadaista”): risulta evidente infatti che non è più tanto l’idea di una concatenazione di sviluppi e riprese degli elementi melodici e ritmici a guidare la composizione, quanto la loro sovrapposizione, la loro giustapposizione, la loro ricombinazione, come se non si trattasse più di esplorare fino in fondo un’unica dimensione sonora, ma di intersecarne assieme svariate. Il Duo per Violino e Violoncello (1925) manifesta fin dalle prime battute del Moderato iniziale questa tendenza, che non va letta, tuttavia, come sinonimo di dissipazione e frammentazione, ma come arricchimento delle possibili direzioni del discorso musicale. Un arricchimento che si mostra rigoglioso e nervoso assieme, mai decidendosi a favorire uno specifico carattere (a tratti lirico e sospeso, altrove nervoso, brillante e così via) ma scegliendo di dare voce a ciascuno, in un intreccio ponderatissimo. Inconfutabile la prossimità a modelli dell’Europa orientale, modelli tra cui non figura soltanto Bartók ma anche, in una posizione non meno eminente, Kodály, in particolare nel II movimento del Duo, la splendida Zingaresca. Impeccabile, vigorosa dove necessario e attentissima ovunque all’uso delle dinamiche l’esecuzione di quest’opera dalle elevate pretese tecniche (al violino, in questo caso, Valeriy Sokolov e al violoncello Jens Peter Maintz). Una breve nota a parte, infine, sullo strabiliante Sestetto per archi, Op. 45 (1924), un lavoro le cui prime fasi di gestazione risalgono a non meno di quattro anni prima della sua redazione definitiva. Tutt’altro che affrontabile da qualsiasi formazione cameristica, costituisce forse la più alta sfida per i sei esecutori (Boris Brovtsyn, Valeriy Sokolov, Philip Dukes, Maxim Rysanov, Jens Peter Maintz e Torleif Thedéen), che rispondono in questi concerti magnificamente, non permettendo mai all’orecchio di sfuggire, distraendosi, dalla trappola magica di questa musica elusiva ed inquieta.
Alice Verti