BOLOGNA, TEATRO COMUNALE, 10-18 Marzo 2017: G. ROSSINI, “IL TURCO IN ITALIA”
Bologna, Teatro Comunale, 12 marzo 2017
G. ROSSINI
Il Turco in Italia
Simone Alberghini (Selim), Nicola Alaimo (Don Geronio), Hasmik Torosyan (Donna Fiorilla), Maxim Mironov (Don Narciso), Alfonso Antoniozzi (Prosdocimo), Aya Wakizono (Zaida), Alessandro Luciano (Albazar). Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna,
direttore Christopher Franklin, maestro del coro Andrea Faidutti, regia e scene Davide Livermore, costumi Gianluca Falaschi.
Cose turche? No, riminesi.
Dal 2008 il Comune di Rimini ha manomesso la toponomastica di 26 strade del quartiere Marina per sostituire ai nomi di grandi musicisti altrettanti titoli di film del Federico nazionale: “via Lo sceicco bianco (1952) già via Chopin”; “via I vitelloni (1953) già via Mozart”. Un analogo selfie a base di Vitelloni, Saraghine, Gradische e altri fantasmi dell’immaginario goliardico-postribolare caro al Fellini più autentico – quello che il suo maestro Rossellini definiva “provinciale” e “punto più basso del neorealismo” – innerva la regia di Davide Livermore per Il Turco in Italia.
(foto di: Rocco Casaluci)
L’eroe eponimo qui figura un avatar di Alberto Sordi nello Sceicco bianco ma potrebbe anche essere, salva la decenza, il dottor Xavier Katzone ne La città delle donne. Trattandosi dunque di regia “katzonica” (peraltro già vista l’estate passata al Rossini Opera Festival di Pesaro) non ci sprecheremo molte parole. Salvo che per rilevare come il regista torinese abbia ceduto all’anticlericalismo più corrivo promuovendo il cicisbeo “Don” Narciso – laico come Geronio, “Don” di rito spagnolesco/napoletano – a pretino da Otto e mezzo, così da farne oggetto di lazzi semiblasfemi; come quando lo fa giocherellare con la croce pettorale brandita a mo’ di spada per lanciarsi alla riscossa contro il rivale in amore. E poi da Livermore, per vent’anni tenore in carriera, non ci saremmo attesi una trovata antimusicale come il mitragliamento della macchina da scrivere con cui il poeta Prosdocimo inquina lunghi tratti dell’opera. “Ma ci faccia un piacere!”, avrebbe detto Totò.
(foto di: Rocco Casaluci)
Ciò premesso, anche un allestimento confusionario – che nelle sottili ambiguità del Rossini buffo non sa vedere oltre la farsa circense e il bozzetto da Cinecittà – potrebbe trovar riscatto in un reparto musicale capace d’imprimere ritmo e coerenza alla macchina sferragliante. Non ci riesce fino in fondo; in primo luogo per il montaggio bulimico della partitura: un compromesso al rialzo fra le versioni milanese e romana concertato in modo appena corretto, e a tratti letargico, dal giovane maestro Christopher Franklin. Sul podio si attendeva il patriarca Alberto Zedda, rapito al mondo il 6 marzo. Perché non l’abbiano sostituito col suo migliore allievo Michele Mariotti, che a Bologna è direttore stabile, resta un mistero forse spiegabile con un’agenda ormai blindata per la stagione in corso.
(foto di: Rocco Casaluci)
Fra i solisti abbiamo apprezzato tre veterani del ramo, magari un po’ logorati nel metallo vocale ma tuttora insostituibili. Alfonso Antoniozzi (il poeta Prosdocimo) regge bene il gioco meta-teatrale a dispetto di una diffusa imprecisione nell’intonazione dei recitativi. Simone Alberghini, aitante seduttore inturbantato dall’acuto facile e dalla proiezione generosa, si prodiga e convince. Il rotondo Nicola Alaimo, Geronio pregevole nel sillabato veloce come nel complesso profilo di sempliciotto solo a metà, non sfigura nei confronti della pestifera moglie.
(foto di: Rocco Casaluci)
Più problematico il reparto femminile. La Fiorilla di Hasmik Torosyan comincia al risparmio buttando via la cavatina “Non si dà follia maggiore”, cresce nella grande scena del second’atto e, senza strafare, si disimpegna con onore nelle agilità del rondò finale “Squallida veste e bruna”. Voce promettente benché acerbetta al contrario di Aya Wakizono (Zaida), mezzosoprano scuro in predicato di passare al contralto. Qui per fortuna ha poco da cantare, ma lo fa con vibrato senescente, dizione impastata e, peggio mi sento, in abito di donna barbuta. Un “numero” fra i più grotteschi del circo Livermore.
Come sempre poco categorizzabile Maxim Mironov, tenorino russo d’indubbio fascino quando s’inerpica su tessiture da “musico soprano” di antica scuola. Ampiezza, colore e volume non sono eccezionali; eppure li usa con scaltrita musicalità e, ad onta della particina affidatagli, raccoglie l’applauso unanime del pubblico bolognese. Miracoli della filologia applicata!
Susanna Migli