luys i luso

LUYS I LUSO – Hymns, Sharakans and Cantos

TIGRAN HAMASYAN

Yerevan State Chamber Choir

Harutyun Topikyan

CD ECM (2015)

Schermata 2016-11-02 alle 16.07.41

Luys i Luso (in armeno «Luce da luce») è l’ultimo, magnifico disco del pianista armeno Tigran Hamasyan, da diversi anni attivo nell’esecuzione e composizione, su base improvvisativa e non, di un repertorio ibrido fra la prassi jazzistica statunitense (è senz’altro il pianismo alla Keith Jarrett quello la cui eco si ode più distintamente nelle parti solistiche) e la tradizione musicale popolare e sacra armene. Il disco annovera inni, sharakans (i canti liturgici della messa secondo il rito della Chiesa Apostolica Armena) e canti sacri di più generica forma appartenenti a un vastissimo lasso di storia musicale che comprende sedici secoli (l’epoca più remota sfiorata dal repertorio è il V secolo d. C., con le musiche del monaco Mesrop Mashtots; quella invece a noi più recente, è il XX sec., con quelle del monaco Komitas, al di là, naturalmente, dell’attualità portata dagli interventi rielaborativi dello stesso Hamasyan). È un’alchimia non semplice a formularsi in parole quella che lega tanto armoniosamente il pianoforte jazzistico e a tratti minimalista di Hamasyan con voci soliste ed il coro che eseguono i brani del repertorio sacro nella loro reciproca, ricchissima, policontinentale risonanza. Forse è la decontestualizzazione che l’operazione di arrangiamento di Hamasyan sottende, la chiave per comprendere questa alchimia: decontestualizzazione, dall’ambiente e dalla comunità monastici, che diventa anche atemporalizzazione, non-separatezza dei linguaggi compositivi, ma non fusione, non oblio, non melting pot un po’ banale e post-moderno. Piuttosto: comunione, in senso profondamente religioso e spirituale, molteplice appartenenza, continuazione. Forse perché il pianismo di Hamasyan è tanto sospeso e sidereo quanto i canti della sua tradizione nazionale, o forse perché le rielaborazioni dei testi musicali sono realizzate con tanto gusto e tanta intelligenza da rimuoverne la remotezza temporale, da se stesso e da noi che lo ascoltiamo. L’intero album è acustico, per voci (quelle dello Yerevan State Chamber Choir), come detto, e pianoforte, in certi casi preparato (dall’insuperabile accordatore Alberto Amendola, la cui prematura scomparsa si è compianta lo scorso anno), con la sola eccezione dell’esordio dell’ultimo brano, un inno basato su melodie del VII secolo. Qui l’ascoltatore viene estraniato per qualche istante dal genere di sonorità udite fino a quel momento: la monodia cantata dalla voce maschile è filtrata da un effetto di registrazione da primo ‘900 (registrazione probabilmente originale, la cui “antichità” è soltanto simulata, benché nel booklet non sia specificato), come a rendere finalmente evidente, in chiusura, quella multi-temporalità che fino a quel punto la sensibilità di Hamasyan aveva reso ignorabile o, comunque, non centrale per l’avvicinamento all’universo musicale liturgico armeno e per la sua comprensione – anche all’assoluto profano. Le impressioni finali dopo l’ascolto di Luys i Luso assomigliano a quelle che si posso avere varcando la soglia di un’antichissima chiesa mediorientale o eurasiatica: nella relativa confidenza con gli archetipi, e nella loro riconoscibilità, si percepisce comunque, senza poterlo superare, il limite di un Mistero che, paradossalmente, ci riscalda con la sua incomprensibilità.

Merita una menzione speciale l’elegante fattura dell’edizione (ECM, 2015), in cartoncino stampato in bianco e nero, il cui booklet offre contenuti molto interessanti soprattutto per ciò che riguarda i testi (i cui manoscritti vengono mostrati in riproduzione fotografica), i loro autori (quando noti) e le sedi della loro diffusione (i diversi monasteri); suggestivi contenuti fotografici la arricchiscono contribuendo a tratteggiare nella mente dell’ascoltatore un’immagine delle terre e dei volti armeni dandole più nitidi contorni; immagine che, del resto, Hamasyan restituisce già in buona parte dal punto di vista sonoro adottandone sovente le scale e i modi tradizionali.

Alice Verti

 

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