Claude Debussy
“The Late Debussy – Etudes & Epigraphes Antiques”
Axel Trolese, pianoforte
CD Movimento Classical MVC 001/16
Chissà che cosa avrebbe proferito Arturo Benedetti Michelangeli, uno dei due “guardiani di Debussy” (l’altro fu il leggendario Walter Gieseking), se fosse venuto a sapere che due delle opere più ermetiche e complesse del sommo compositore francese, le Six Epigraphes Antiques e i due libri dei 12 Études, sarebbero state al centro del debutto discografico di un pianista che non ha ancora compiuto vent’anni. Ai suoi tempi, probabilmente, il maestro bresciano non avrebbe detto nulla facendo intendere tutto, forse gli sarebbe apparso solo un fremito sul volto, concependo tale scelta alla stregua di una sfrontatezza, un abuso scriteriato di gioventù, un affronto, un esecrabile atto di arroganza rispetto al pudico, sacro e lento avvicinarsi di cui fu protagonista quando volle consegnare alla storia del disco le sue registrazioni dedicate ai due libri dei Préludes dopo anni e anni di studio, di riflessioni, di tentativi, di approcci rinnegati e poi ritentati (non dimentichiamo che registrò il primo libro nel 1978, quando aveva cinquantotto anni e il secondo esattamente dieci anni dopo, a sette anni dalla sua morte).
Ma i tempi cambiano e ci insegnano che ciò che prima era un punto di arrivo adesso rappresenta un punto di partenza, a cominciare, appunto da due opere così particolari, ostiche e impenetrabili come possono essere queste pagine debussyane prese in oggetto dal giovanissimo pianista laziale Axel Trolese al suo debutto discografico. Questo perché le Epigrafi e gli Studi sono a dir poco refrattari a un tentativo di approccio interpretativo e questo fondamentalmente per due motivi, di cui uno messo giustamente in evidenza dallo stesso Axel Trolese nelle note che accompagnano il disco; da una parte queste pagine vedono pianisticamente la luce in due anni, il 1914 e il 1915, che chiudono definitivamente la porta al “mondo di ieri” di zweigiana memoria e costringono l’arte musicale al confronto dilaniante con l’idea della guerra moderna, sistematica, votata all’indiscriminato sterminio (manca ancora un’opera musicologica sistematica che racconti debitamente come i compositori europei del primissimo Novecento reagirono con la loro arte di fronte a quell’autentica macelleria messicana che fu il primo conflitto mondiale) e dall’altra rappresentano la cerniera definitiva, ma non ultimata, a causa della morte di Debussy che avviene tre anni più tardi, di quel percorso musicale che porta il compositore francese a isolare sempre più il concetto di suono in sé (non ci si lasci ingannare dai richiami “falsamente” melodici di queste pagine). Non dimentichiamo che le Epigrafi nascono per essere eseguite a quattro mani e che rappresentano l’adattamento delle musiche per due flauti, due arpe e celesta scritte tra il 1900 e il 1901 come intermezzi per una recitazione dei poemi Chansons de Bilitis di Pierre Louys, il poeta francese che sta a Debussy come il collega tedesco Richard Dehmel sta a Schönberg, ossia due presenze fondamentali, ineludibili che con i loro versi diedero vita a un periodo di ricerca per i due compositori votato al rapporto enigmatico tra voce e strumento musicale. Più complessa è la vicenda che tocca i dodici Studi (con quelli chopiniani presi a modello) che vantano, si potrebbe dire ancora tuttora, una profonda disistima rispetto all’olimpica stima che circonda i Preludi, ma di cui sono in un certo senso il naturale sviluppo e che a loro volta avrebbero portato, se il tumore non si fosse portato via Debussy, a un’ulteriore e possibile evoluzione di quelle cellule sonore sempre più votate alla rarefazione e all’iperconcentrazione tematica del loro significato (quando si ascoltano gli Studi di Ligeti non si dimentichi di questo fatto e del loro immenso debito nei confronti di quelli debussyani, ossia di come il loro essere oggetto diventi finalmente soggetto, poiché in fondo tutto il percorso musicale di Debussy è una lenta, costante e macerante mutazione dell’oggetto sonoro che si trasforma nel soggetto della propria rappresentazione timbrica).
Ora, di fronte a queste poche note si può comprendere come un pianista debba assumere il physique du rôle di un alpinista che decida di affrontare un paio di ottomila metri della catena himalayana, per essere in grado di superarne le pareti di sesto grado. Questo perché affrontare le Epigrafi e gli Studi significa confrontarsi con una ricerca sonora attraverso la quale mostrare come Debussy abbia cercato di reagire al dramma della guerra con un atto artisticamente esorcizzante (l’ambigua apollineità delle Epigrafi) e dall’altro proseguendo quel sentiero che dai Preludi passa attraverso Jeux per giungere agli Studi (la via dell’oggetto che diviene soggetto). Roba da far tremare i polsi e che solo quando si è s-“pensieratamente” giovani possono essere affrontati come ha fatto Axel Trolese che, sia ben chiaro, non è andato incontro né a una sconfitta esecutiva né, tantomeno, a scomparire musicalmente parlando attraverso le pastoie di un disco che avrebbe potuto rappresentare un’imbarazzante débacle per il suo futuro pianistico, facendo la stessa fine del protagonista del Zauberberg manniano, inghiottito dalle nebbiose trincee della Prima guerra mondiale.
Questo perché facendosi forte di una sorprendente carica espressiva e mostrando un’ancor più sorprendente capacità introspettiva che appartiene di diritto (ma non sempre) a chi, oltre a possedere le carature di pianista, ha già navigato per i perigliosi mari della vita e dell’esperienza interpretativa, il giovanissimo artista laziale ha saputo imprimere un’impronta in queste opere, nel senso che il suo approccio non è stato né didascalico, ossia votato attraverso un’esecuzione che fa ancora trapelare l’arte e la necessità dell’apprendimento in corso né, all’opposto, ammantando una perniciosa sicumera che avrebbe causato risultati a dir poco disastrosi, né tantomeno subendo alla lunga l’impervietà della partitura, ossia destreggiandosi in qualcosa di più grande di lui e cercando di salvarsi in calcio d’angolo, vale a dire trasformando Debussy in un essere chimerico a metà strada tra Chopin e Liszt (e questo vale soprattutto per gli Studi).
Non è il caso di fare raffronti e paragoni, citando tizio e ricordando caio, ma è indubbio che l’impronta che Axel Trolese ha lasciato di queste opere è circoscritta a un’orma che è frutto di un’attenta valutazione e riflessione della partitura (e qui gli insegnamenti che ha ricevuto da Baglini e da Prosseda si fanno sentire) che porta l’interprete ad essere mediatore di se stesso sulla spinta emotiva, sensitiva ed empatica che gli permette di esprimere la musica di quel dato compositore. Quindi, ne esce un Debussy che non cade nella trappola della melodia mimetica, di un Debussy che sa essere apollineo ma che non riesce, allo stesso tempo, a resistere al solletico dionisiaco (si ascolti la quarta Epigrafe Pour la danseuse aux crotales), in cui il gesto pianistico non soggiace alla volontà di eccedere, manifestando quello che non c’è, ma lasciandolo intuire (e in ciò il pianismo debussyano è a dir poco micidiale). Manifestazione/intuizione che aumentano a livello esponenziale negli Studi, la cui lettura di Trolese vuole essere una sorta di ponte di liane tra la tradizione del romanticismo ottocentesco (lo studio come sfida per affrontare interpretativamente se stessi) e la volontà di andare oltre senza chiudere in faccia la porta della tradizione (altrimenti il rischio è un’esecuzione a “trazione anteriore”, ossia sfacciatamente “modernista”, con Debussy che scopre improvvisamente di essere diventato, malgré soi, un Arlecchino servitore di Busoni e di Skrjabin).
Da qui un Debussy che si pone sulla discriminante di una sua “storicizzazione” (e ciò si evince dalla lettura tesa, ricca di percettibili sfumature timbriche, data agli Studi), senza però che venga meno la dimensione metastorica (la sottile ricerca di pesi e contrappesi presente nelle Epigrafi), che appartiene squisitamente al suo côté esoterico, che traspare anche in queste opere (e bene fa Trolese a evidenziare, a tale proposito, citando l’ultima Epigrafe, Pour remercier la pluie au matin, il rapporto a dir poco ossessivo che Debussy ebbe esotericamente con l’acqua, messo in esemplare evidenza da un altro giovane pianista, Alessandro Nardin, nel suo saggio Debussy l’esoterista, di cui ho parlato recentemente su queste pagine).
Andrea Bedetti