Johannes Brahms & Frank Bridges
“Piano Trios”
Hyung-ki Joo (pianoforte) – Rafal Zambrzycki-Payne (violino) – Thomas Carroll (violoncello)
CD Paladino Records pmr 007
Ogni volta che ascolto (e cerco di farlo spesso) il meraviglioso Trio in si bemolle maggiore op. 8 di Johannes Brahms non posso fare a meno di chiedermi che cosa aveva dentro di sé, che cosa poteva avvertire nelle corde dell’animo il sommo compositore amburghese quando lo compose nel 1853, all’età di vent’anni. Una domanda più che lecita di fronte all’abissale profondità di questo capolavoro, alla struggente bellezza espressiva di cui è impregnato, alla capacità di coniugare e dominare la necessità impellente e inderogabile di esprimere l’insondabile conchiudendola mirabilmente in una struttura formale che, a parte quale lecita manchevolezza (soprattutto nell’ultimo tempo), è intrisa di una maturità stilistica da lasciare attoniti. In un certo senso questo Trio rappresentò il biglietto di visita, la porta di accesso attraverso la quale un giovane di ottime speranze, dal pallido e imberbe volto illuminato dal ceruleo degli occhi, conquistò con le sue primissime composizioni Robert Schumann, colui che lo avrebbe lanciato nel firmamento della musica romantica del tempo, prima di spegnersi lui stesso, annichilito dalle tenebre della follia, in una clinica psichiatrica tre anni dopo.
Non è quindi un caso che Brahms, il quale era poco avvezzo a riprendere in mano opere da lui già composte e stampate, volle nel 1889 rivedere la partitura del suo Trio giovanile, prosciugando di quasi un terzo proprio l’ultimo tempo e sistemando altri passaggi nei restanti movimenti. Ed è proprio questa la versione scelta nella presente registrazione, effettuata da Hyung-ki Joo al pianoforte, Rafal Zambrzycki-Payne al violino e Thomas Carroll al violoncello, unitamente a una pagina del compositore postromantico inglese Frank Brigde, l’intrigante Fantasia n. 1 in do minore, scritta nel 1907 e la cui scrittura risente del capolavoro brahmsiano, proiettando idealmente la sua scrittura nell’alveo di inizio Novecento. In effetti, quest’opera di Bridge rappresenta già un approccio al distacco definitivo, portato avanti soprattutto da coloro che abbracceranno l’espressionismo, dall’arcipelago romantico del secondo Ottocento, attraverso un linguaggio nel quale l’elemento di tensione stilistica, la presenza di materiale dissonante e una frammentazione melodica già descrivono un segnale di tale cambiamento.
Davvero più che convincente la lettura fatta dal giovane trio inglese che se non rinuncia a un approccio lirico e appassionato del capolavoro brahmsiano, allo stesso tempo immette in esso degli squarci nei quali far colare quelle pulsioni destabilizzanti che fanno squillare il campanello d’allarme di un romanticismo già messo in discussione, profetizzandone quella crisi che si concretizzerà alcuni decenni più tardi. Sulla stessa linea interpretativa si colloca l’esecuzione della pagina di Bridge, intensa, appassionata, lucida e implacabile nella sua enunciazione di una modernità ormai ineluttabile.
Buona la presa del suono effettuata nel Recital Hall della Yehudi Menuhin School di Londra da Andrew Mellor, con tutti i parametri più che validi, capaci di restituire una riproduzione della dinamica e dello spazio sonoro nel quale i tre strumenti vengono ricostruiti in modo verosimile e congruo.
Andrea Bedetti